martedì 20 settembre 2022

Alla ricerca di una percoca / In search of a peach

La foto che scattai della prima percoca che mangiai dal giardino dei miei cugini a Montefalcione
(27 agosto, anniversario della morte di mio nonno che tanto amava quelle percoche).

The photo that I took of the first peach that I ate from my cousins’ backyard in Montefalcione
(August 27, the anniversary of the death of my grandfather who so loved those peaches).
Tornare negli Stati Uniti dall’Italia non è mai facile per me. Come mi disse una volta (semplicisticamente, ma accuratamente) un’amica romana che viveva in America: “L’Italia ha cultura ma non lavoro. L’America ha lavoro ma non cultura.”

Il mio ultimo rientro è stato particolarmente difficile. Potrà sembrarvi strano. Ma la cosa che desideravo di più, la cosa che più amaramente mi mancava, non era la musica, né il paesaggio, né il vino. Desideravo una percoca.

Sembra che ogni volta che vado a Tortona, mi colpiscono le diverse priorità dell’Italia. Era il 25 novembre 2007. Domenica mattina. Mercati aperti in Piazza Duomo. Bancarelle varie, coperte dai tesori. (Ne ricordo una che era piena di caffettiere antiche.) E ad una bancarella, una grossa forma di formaggio (della zona), un grosso salame (della zona), una bottiglia di spumante bianco (della zona), e una pagnotta (appena sfornata). Guardai questo tavolo con bocca aperta e occhi spalancati. “Quanto costa?” chiesi. Non dimenticherò mai lo sguardo sorpreso sul viso della donna. “Costo? No, è gratis. Ma abbiamo questi bei calendari...” Era un calendario religioso di qualche piccola organizzazione religiosa per 5 euro. Vabbè, comprai il calendario, presi il piattino di carta e il bicchiere di plastica, trovai una panchina, buttai via il calendario e consumai quello spuntino regale. Ora mettiamo a confronto gli Stati Uniti. Le chiese hanno mucchi di calendari. Li regalano gratuitamente. Ma quello spuntino costerebbe $ 25!

Quindici anni dopo, ero di nuovo a Tortona. Potrei raccontare tante storie meravigliose dei miei pasti conviviali con i sacerdoti. Le donazioni dei fedeli ai sacerdoti venivano spesso sotto forma di cibo e bevande. Un giorno, un regalo fu una scatola di percoche. Era chiaro che provenivano dai percochi del cortile di qualcuno. Non erano trattate di sostanze chimiche. Ciò significava che erano dolce e deliziose e non avevano un retrogusto antipatico. Significava anche che una grande percentuale di loro, forse la metà, aveva delle macchie su di loro. Nessuno disse una parola; semplicementene prendevano una buona, oppure ne prendevano una macchiata e ne tagliavano le parti cattive.

Ad ogni pasto, la percentuale di percoche buone era più piccola. Dopo un paio di pasti, praticamente ogni percoca nella scatola era macchiata. 

Al prossimo pasto, la scatola non c’era. Invece, c’era una ciotolona di bellissime percoche tagliate! Erano così belle che non avreste mai immaginato che provenissero da quella scatola di indesiderabili. Né immaginereste che da loro si possa estrarre abbastanza frutta buona da riempire una ciotolona!

Non che tagliare le percoche fosse una procedura difficile. Ci è voluto semplicemente tempo. Era abbastanza importante che ne trovassero il tempo. Le priorità.

(C’era un po’ di liquido dentro quella ciotolona. Magari una goccia dello spumante bianco per cui quella provincia è famosa?)

Una volta mia zia mi raccontò che a mio nonno paterno piacevano le percoche affettate nel vino. ”Si beve e si mangia.” (Anni dopo, un amico napoletano spiegò che in questo caso sarebbero state utilizzate solo le percoche con il nocciolo aderente, non le pesche con il nocciolo libero. Lui era irremovibile sul fatto che non si aggiungeva mai né zucchero né spezie.)

Nella mia mentalità americana, immaginavo che le pesche di supermercato venissero tagliate e gettate nel vino. (Che ne sapevo di pesticidi?) Tuttavia, dopo questa bella esperienza tortonese, ho capito che non era così che fosse nata questa ricetta. Alla fattoria niente viene buttato via, nemmeno la frutta marcia. In un frutto marcio, la parte buona è dolce come il miele. La frutta più deliziosa di questa non esiste proprio. Sono queste belle fette che sono aggiunte al vino. Che bisogno ci sarebbe di aggiungere zucchero o altro?

Qui negli USA si vedono le diverse priorità. In America buona fortuna nel trovare frutta non trattata. Oppure grano non trattato, oppure frutta secca non trattata, oppure latte non trattato... Ecco perché tutti siamo allergici. Ecco perché tutte le nostre ricette sono costantemente abbellite e complicate. Aggiungiamo un po’ di zucchero, panna e spezie e...

Una settimana dopo aver lasciato Tortona, feci visita ai miei meravigliosi cugini a Montefalcione, il paese irpino dove i Ciampa vivevano per secoli (e vivono tuttora). Dopo solo pochi giorni il mio palato si abituava alla frutta non trattata, al vino fatto in casa da uve non trattate, all’olio d’oliva fatto in casa da olive non trattate, al formaggio fatto in casa da latte non trattato, ai salumi fatti in casa dalla carne di maiali non avvelenati.

Diversi anni fa, un mio amico napoletano (lo stesso che mi parlò di percoche vs. pesche) mi parlò delle difficoltà di crescere a Torre del Greco durante la guerra. Una delle gioie della sua infanzia era quella di trascorrere l’estate in campagna. Lì, mi spiegò, non aveva mai fame, perché c’erano vari alberi da frutta fresca e secca. Tutto quello che doveva fare era allungare una mano e mangiare quando voleva. Americano che sono, ricordo di aver pensato: “Come si potrebbe accontentarsi di mangiare solo frutta?” Grazie ai miei cugini montefalcionesi, ho capito subito! Mangiavo fichi, mele, prugne, uva, olive e, naturalmente, percoche, tutte dal loro proprio giardino, nessuna delle quali trattata.

Ricordo ancora la prima percoca che mangiai, il giorno del mio arrivo. Dolce, succosa e senza nemmeno una macchia. Era così spettacolare che ne feci una foto! (Per coincidenza, quel giorno – il 27 agosto – era l’anniversario della morte di mio nonno, lo stesso nonno che amava le percoche al vino.)

Come ho detto prima, questo rientro in America mi è stato particolarmente difficile. Per i primi giorni cercavo di non pensare a niente e di immergermi nel lavoro che mi aspettava. Poi un giorno sono andato al supermercato. Sono andato alla sezione ortofrutticola. Gli scaffali erano mezzi vuoti. Degli ortofrutticoli che c’erano, la maggior parte era o immatura o marcia. Poiché desideravo ardentemente le pesche, ho deciso di comprarne alcune. (Non senza riluttanza.) GROSSO SBAGLIO! Anche dopo aver lavato bene le pesche, le mie labbra erano un po’ pruriginose e tutto l’interno della mia bocca era pieno di un retrogusto sgradevole.

Che tipo di “società avanzata” è questa? Che tipo di “qualità della vita”? Abbiamo avvelenato il nostro cibo. Il grano è avvelenato. (Il grano – il cibo che ha tenuto in vita la razza umana per millenni. L’abbiamo avvelenata.) Il latte è avvelenato. La frutta secca è avvelenata. Che “coincidenza” che le allergie al grano, alla frutta a guscio e ai prodotti lattiero-caseari sono comunissimi negli USA! Gli animali sono pieni di ormoni. E, naturalmente, l’acqua è inquinata.

Di tutte le cose su questo pianeta in cui viviamo – di cui ne abbiamo solo uno – che avremmo potuto scegliere di inquinare, quale abbiamo scelto di inquinare? L’ACQUA.

Ho smesso di comprare gli ortofrutticoli al supermercato. Ora faccio la spesa a un “farmer’s market” non lontano da casa mia. Intendiamoci, “fresca dalla fattoria” è un termine improprio. “Fresco dalla fattoria” e “fresco dal tuo giardino” non sono la stessa cosa. Gli agricoltori trattano i loro raccolti. Così arriviamo allo stesso problema.

Ma forse, all’età di 51 anni, sono ancora abbastanza giovane da vivere abbastanza per vedere quel giorno che gli Stati Uniti d’America producano la frutta non avvelenata. Cinquant’anni fa sapevamo già come promuovere gli insetti benefici che mangiano i parassiti bersaglio. Abbiamo anche insetticidi biologici, derivati ​​da microrganismi presenti in natura. Questa nazione “avanzata” di “qualità” utilizzerà questi metodi? Rinuncerà ai veleni? O i fabbricanti dei veleni continueranno a comprare il governo e la comunità scientifica?
    Returning to the United States from Italy is never easy for me. As a Roman friend living in America once said to me (oversimplistically, but accurately), “Italy has culture but no jobs. America has jobs but no culture.”

My latest re-entry was particularly hard. This may sound strange to you.  But the thing I longed for the most, the thing I most bitterly missed, was not the music, nor the scenery, nor the wine. I longed for a clingstone peach.

It seems like every time I go to Tortona, I am struck by the different priorities of Italy. It was November 25, 2007. Sunday morning. Open markets in the Piazza Duomo. Various long tables, covered with treasures. (I remember one that was filled with antique coffeemakers.) And at one table, a large wheel of cheese (from the area), a large salami (from the area), a bottle of white sparkling wine (from the area), and a loaf of bread (freshly baked). I beheld this table with jaw dropped and eyes wide open. “How much does it cost?” I asked. I’ll never forget the surprised look on the woman’s face. “Cost? No, it’s free. But we have these nice calendars ...” It was a religious calendar of some small religious organization for 5 Euros. OK fine, I bought the calendar, took my little paper plate and plastic cup, found a bench, threw the calendar away, and consumed that regal snack. Now compare the United States. Churches have piles of calendars. They give them away for free. But that snack would cost $25!

Fifteen years later, I was again in Tortona. I could tell many wonderful stories of my convivial meals with the priests. Donations from the faithful to the priests often came in the form of food and drink. One day, a gift was a box of clingstone peaches. It was clear that they had come from the peach trees in someone’s backyard. They were not treated with chemicals. This meant that they were sweet and delicious and had no nasty aftertaste. It also meant that a large percentage of them had marks on them – maybe half. No one said a word; they simply took a good one, or they took a marked one and cut away the bad parts.

With each meal, the percentage of good peaches was smaller. After a couple of meals, virtually every peach in the box was marked. 

At the next meal, there was no box. Instead, there was a large bowl of beautiful cut peaches! They were so beautiful that you would never have imagined that they came from that box of undesirables. Nor would you imagine that enough good fruit could be extracted from them to fill a large bowl!

Not that cutting the peaches was a difficult procedure. It simply took time. It was important enough that they made the time for it. Priorities.

(There was a little liquid in that large bowl. Was it a drop of the sparkling white wine for which that province is famous?)

An aunt once told me that my parental grandfather liked to have sliced peaches in wine. “You drink and you eat.” (Years later, a Neapolitan friend explained that only clingstone peaches would be used in this, not freestone peaches. And he was adamant that you never added sugar or spices.)

In my American mentality, I imagined that supermarket peaches were cut up and thrown into the wine. (What did I know about pesticides?) However, after this beautiful experience in Tortona, I realized that that was not how this recipe was born. On the farm nothing is thrown away – not even rotten fruit. In a piece of rotten fruit, the good part is sweet as honey.  No more delicious fruit exists. Those are the pieces that you add to the wine. What need would there be to add sugar, or anything else?

Here in the US you have different priorities. In America good luck finding untreated fruit. Or untreated wheat, or untreated nuts, or untreated milk ... Which is why everyone has allergies. It is also why recipes are constantly embellished and complicated. Let’s add some sugar, and cream, and spices, and ...

A week after leaving Tortona, I visited my wonderful cousins in Montefalcione, the Avellinese town where the Ciampas lived for centuries (and still live). After only a few days, my palate got used to untreated fruit, to homemade wine made from untreated grapes, to homemade olive oil from untreated olives, to homemade cheese from untreated milk, to homemade cold cuts from pigs that were not poisoned.

Several years ago, my Neapolitan friend (the same one who told me about clingstone vs. freestone peaches) told me about the difficulties of growing up in Torre del Greco during the war. One of the joys of his childhood was to spend the summer in the country. There, he explained, he was never hungry, because there were various fruit and nut trees. All he had to do was reach up and eat whenever he wanted. American that I am, I remember thinking, “How could you be satisfied eating just fruit and nuts?” Thanks to my cousins in Montefalcione, I quickly understood! I ate figs, apples, plums, grapes, olives and of course peaches from their own backyard – none of it treated.

I still remember the first peach I ate, on the day of my arrival. Sweet, juicy, and not a mark on it. It was so spectacular that I took a photo of it! (By coincidence, that day – August 27 – was the anniversary of the death of my grandfather, the same grandfather who loved peaches in wine.)

Like I said earlier, this re-entry into America was particularly difficult. For the first few days I tried not to think about anything and immerse myself in the work that was waiting for me. But then one day I went to the supermarket. I went to the produce section. The shelves were half empty. Of the produce that was there, most of it was either not-yet-mature or rotten. Because I was longing for peaches, I decided to buy some. (Not without reluctance.) BIG MISTAKE! Even after washing the peaches well, my lips were a little bit itchy, and the whole inside of my mouth was filled with an unpleasant aftertaste.

What kind of “advanced society” is this? What kind of “quality of life"? We poisoned our food. The wheat is poisoned. (Wheat – the food that has kept the human race alive for millennia. And we poisoned it.) The milk is poisoned. The nuts are poisoned. What a strange “coincidence” that allergies to wheat, tree nuts and lactose are very common in the United States! The animals are filled with hormones. And, of course, the water is polluted.

Of all the things on this planet in which we live (of which we have only one) that we could have chosen to pollute, which did we chose to pollute? THE WATER.

I have quit buying produce at the supermarket. I now shop at a farmer’s market, not far from my home. Mind you, “farm fresh” is a misnomer. “Fresh from the farm” and “fresh from your backyard” are not the same thing. Farmers treat their crops. And so we arrive at the same problem.

But perhaps, at age 51, I am still young enough that I will live to see that day that the United States of America produces unpoisoned fruit. Fifty years ago we already knew how to promote beneficial insects that eat or parasitize target pests. We also have biological insecticides, derived from naturally occurring microorganisms. Will this “advanced” nation of “quality” employ these methods and give up the poisons? Or will the makers of the poisons continue to buy the government and the scientific community?

sabato 17 settembre 2022

Discorso tortonese (19 agosto 2022)

Tortona, Basilica Santuario Madonna della Guardia
(foto: Leonardo Ciampa, 15 agosto 2022)

Ecco il discorso (in italiano) che ho tenuto durante il mio concerto alla Basilica Santuario Madonna della Guardia di Tortona, 19 agosto 2022, a Nostræ Dominæ Custodis: Elevazione spirituale in musica in onore della Madonna della Guardia,” un evento nel Festival Perosiano 2022 (Don Paolo Padrini, direttore).

Ho ricevuto applausi per le mie composizioni. Ma ho ricevuto anche un grande applauso per il discorso stesso!

Buonasera. È quasi impossibile esprimervi quanto profondamente significativa questa sera è per me. Ma volevo almeno tentare di esprimerlo.

Quasi fin dall’inizio, la mia vita si è legata, in un modo o un altro, a Don Orione.

Sono nato nel 1971 a Boston. Sapevo parlare solo inglese, perché i miei genitori sapevano parlare solo inglese. I miei nonni erano italiani, quei paterni da Montefalcione provincia di Avellino, quei materni dalla Sicilia.

Quando sono nato vivevo a meno di un chilometro dal centro orionino, con la casa di riposo Don Orione e la famosa statua della Madonna (copia di quella a Monte Mario, a Roma).

Nel ‘76 quando avevo 5 anni, mia nonna avellinese divenne residente della casa di riposo. Lei visse lì fino alla morte nel ‘81.

Nel frattempo, c’era un sacerdote rimarchevole di nome Don Antonio Simioni. Padre Antonio conosceva il futuro santo per diversi anni. La prima guerra lo rese orfano all’età di cinque anni. Andò a vivere negli orfanotrofi orionini — prima a Campocroce di Mirano, poi agli “Artigianelli” di Venezia, ove conosceva Don Sterpi (sepolto proprio qua sotto nella cripta). Don Orione stesso lo influenzò a entrare nel sacerdozio. Compié il noviziato a Villa Moffa con Don Cremaschi (sepolto qua sotto anche lui). Don Orione chiamò Antonio a fare l’assistentato nel seminario di Tortona. Ricevé la professione perpetua dalle mani di Don Orione a Montebello della Battaglia. L’anno prossimo, 1935, fu ordinato al Duomo di Tortona. Serviva a Villa Moffa, poi a San Michele di Tortona, poi per quasi 25 anni in Sud America. Nel ‘71 arrivò negli Stati Uniti.

Nell’anno 1987, mio nonno siciliano cantava nel Coro della Madonna a Boston. Il direttore era lo stesso Don Antonio Simioni. Il suo organista accompagnatore era Don Gino Marchesani. Padre Gino conosceva Padre Antonio all’inizio degli anni 40, quando Padre Antonio era il rettore di San Michele e Padre Gino cantava in cori sotto la direzione di Padre Antonio, anche in questo Santuario. Ma negli anni ottanta Don Gino aveva un lavoro molto impegnativo a 50 km di distanza, a Bradford, Massachusetts, come direttore di un programma per giovani disabili intellettivi. Quindi Padre Antonio aveva bisogno di un nuovo accompagnatore. Mio carissimo nonnino parlava a lui di me e a me di lui. Incontrai Padre Antonio dopo la Messa per la festa di Don Orione, domenica il 15 marzo 1987. Lui aveva 75 anni e parlava quasi niente inglese. Io avevo 16 anni e non parlavo nemmeno una parola d’italiano. Proprio per poter lavorare con lui alla Madonna di Boston, mi misi a imparare la lingua italiana, cominciando dall’inizio inizio: “Ciao, come stai?”

Ogni mercoledì sera per quasi 18 mesi, cenavo con i sacerdoti orionini. Da destra a sinistra c’erano: Don Rocco Crescenzi, Don Lorenzo Tosatto, Padre Antonio Simioni, Don Angelo Falardi e Padre John Kilmartin. La prima cena mi fu un’esperienza un po’ stupefacente. Io essendo cresciuto a Boston con genitori così americanizzati, non avevo mai preso un pasto all’italiano, con primo, secondo, insalata, formaggi, frutta, eccetera. Quando espressi il mio stupore a Don Lorenzo Tosatto, lui, SCUSANDOSI, mi rispose, “Noi prendiamo il pasto principale a mezzogiorno.”

Sebbene Don Rocco fondò la casa di riposo nel ‘51, il grande santuario sotterraneo fu costruito molto dopo. Fu finalmente dedicato il 29 novembre 1987. Padre Antonio diresse il Coro della Madonna, e fui io all’organo.

L’argomento di conversazione preferito di Padre Antonio era Perosi. Perosi, Perosi, Perosi. Io un americano di 16 anni non avevo mai sentito il nome di Perosi. Non potevo capire il suo entusiasmo per questo compositore “ignoto.” Nella mia mente di sedicenne ragionavo: “Se lui fosse un grande compositore, io conoscerei il nome.” Ma Padre Antonio era persistente. Mi regalò un’audiocassetta della Missa seconda pontificalis, con il Coro Vallicelliano diretto da Don Antonio Sartori e all’organo il grande maestro Giuseppe Agostini (che purtroppo non è più con noi). E una sera ascoltai quest’audiocassetta. Dalla prima Eleison, avevo le farfalle nello stomaco. Fui convertito.

Naturalmente questa conversione diede tantissima gioia a Padre Antonio, che poi mi regalava parecchi altri spartiti e registrazioni. Uno di questi era una registrazione nuovissima, effettuata dal vivo in questo Santuario il 10 maggio 1987. Un coro di 1700 (!) cantanti, al podio Don Luigi Sessa, all’organo il maestro Attilio Baronti. Il produttore della registrazione era il cavalier Luciano Carniglia, in collaborazione con Don Giuseppe Scappini.

Quindi era proprio questa registrazione da 35 anni fa che mi fece incominciare a capire il significato di questo Santuario. Come voi conoscete benissimo, il futuro Santo costruì quest’edificio con i preti e i novizi e i giovani chierici. Uno di questi giovani era Don Rocco Crescenzi, che era un fattorino di Don Orione. Lui mi raccontava di tutto questo, degli occhi penetranti di Don Orione davanti ai quali nessuno osava dire una bugia. Mi raccontava di portare i mattoni per costruire il Santuario. Mi raccontava della gioia della dedicazione e di esser stato sveglio per 36 o 40 ore di fila.

Purtroppo dopo solo 18 mesi di collaborazione, Padre Antonio fu trasferito a Pompei. Potete immaginare quanto ne rimasi triste.

Nel frattempo il mio amore per la musica di Perosi cresceva, e anche il mio amore per la cultura italiana. Ardevo dal desiderio di andare in Italia, ma non ne avevo nessun programma. Padre Antonio mi mise in contatto con una famiglia che conosceva a Sant’Antonio Abate vicino a Pompei. Stetti con questa famiglia, e s’innescò una catena di eventi che cambiarono il corso della mia vita e della mia carriera. Vidi per l’ultimissima volta Padre Antonio, che purtroppo morì un anno dopo. Lui nacque quarant’anni dopo la nascita di Perosi, e lui morì quarant’anni dopo la morte di Perosi.

Nel frattempo a casa a Boston la mia vita continuava di incrociarsi con la casa Don Orione. Mia nonna siciliana soffriva di demenza. Nel 1999 fu iscritta all’asilo nido per adulti. Figuratevi che tutt’e due mie nonne hanno ricevuto cure alla casa Don Orione.

Poi un anno dopo si verificò un altro “incrocio orionino” nella mia vita. Vicinissima alla Madonna è la chiesa di San Lazzaro. I miei nonni materni si sposarono lì. Entrambi ebbero i funerali lì. Io suonai l’organo per tutt’e due funerali, ma anche perché io ero uno degli organisti di S. Lazzaro in quel periodo. Originalmente quella chiesa era stata una congregazione scalabriniana. Poi diventò una chiesa diocesana. E nell’anno 2000 diventò una chiesa orionina. Il nuovo rettore era Padre John Kilmartin.

Nel 2006, scrissi una biografia su Perosi, la primissima in lingua inglese. Commemorava il 50º anniversario della sua morte. C’erano delle strane coincidenze durante quest’anno. Uno di queste era trovare una casa cinque minuti a piedi dalla Madonna! Era un periodo breve ma nostalgico della mia vita. Trovandomi in zona, io spesso suonavo per le Messe nella cappella San Pio X, che era proprio dentro la casa di riposo. Don Rocco e Don Gino alternavano la celebrazione delle Messe. Dopo, prendevamo un caffè e un biscotto e ci ricordavamo di Don Orione e di Padre Antonio.

Nello stesso periodo, 2007, ebbi il grandissimo onore di suonare nel Festival Perosiano qua a Tortona. I direttori del festival in quell’epoca erano il Dottor Giorgio Gatti e il Cavalier Carniglia. E grazie all’intercessione del grandissimo maestro Arturo Sacchetti il mio concerto ebbe luogo al Duomo. Lamento solo il fatto che non potei incontrare Don Scappini, che era morto poco tempo prima.

Mentre stavo a Tortona, ovviamente non vedevo l’ora di assistere a una Messa al Santuario! All’organo fu Don Serafino Tosatto, cugino di Don Lorenzo Tosatto. La sua personalità arzilla e la sua esecuzione all’organo smentivano i suoi 78 anni.

Dopo tutte queste connessioni durante tutti questi anni, potreste immaginare le mie emozioni di arrivare di nuovo a Tortona questa settimana, di suonare un paio di Messe per l’Assunta lunedì scorso, di prendere pasti con i sacerdoti orionini per la prima volta in 34 anni, e di condividere questo momento importante della mia vita con voi adesso. Non potrei mai esprimere la mia gratitudine a Don Paolo Padrini, a Don Renzo Vanoi, ai musicisti, agli altri sacerdoti, e a tutto il personale qua. Sicuramente questa settimana, e questa sera in particolare, io non le dimenticherò mai.

 
    The following is an English translation of the speech that I gave, in Italian, during my concert at the Basilica Santuario Madonna della Guardia in Tortona, August 19, 2022, at “Nostræ Dominæ Custodis: Spiritual Elevation in Music in Honor of the Madonna della Guardia,” an event in the Festival Perosiano 2022 (Don Paolo Padrini, director).

I received applause for my compositions. But I also received a big round of applause for the speech itself!

Good evening. It is nearly impossible to express to you how profoundly meaningful this evening is to me. But I wanted to at least try to express it.

Almost from the beginning, my life has been intertwined, in one way or another, with Don Orione.

I was born in 1971 in Boston. I could only speak English, because my parents could only speak English. My grandparents were Italian, the paternal ones from Montefalcione province of Avellino, the maternal ones from Sicily.

When I was born I lived less than a kilometer from the national Don Orione headquarters, with the Don Orione Rest Home and the famous statue of the Madonna (copy of the one in Monte Mario, Rome).

In 1976 when I was 5 years old, my Avellinese grandmother became a resident of the rest home. She lived there until her death in '81.

Meanwhile, there was a remarkable priest named Don Antonio Simioni. Padre Antonio knew the future saint for several years. World War I made him an orphan at the age of five. He went to live in the Don Orione orphanages — first in Campocroce di Mirano, then at the "Artigianelli" in Venice, where he knew Don Sterpi (buried right here in the crypt). Don Orione himself influenced him to enter the priesthood. He completed his novitiate at Villa Moffa with Don Cremaschi (who is also buried here). Don Orione called Antonio to do an assistantship at the Tortona Seminary. He received his perpetual profession from the hands of Don Orione himself at Montebello della Battaglia. The next year, 1935, he was ordained at Tortona Cathedral. He served at Villa Moffa, then at San Michele di Tortona, then for almost 25 years in South America. In 1971 he arrived in the United States.

In the year 1987, my Sicilian grandfather sang in the Madonna Choir in East Boston. The director was Don Antonio Simioni himself. The organist accompanying him was Don Gino Marchesani. Padre Gino knew Padre Antonio in the early 1940s, when Padre Antonio was the rector of San Michele and Padre Gino sang in choirs under the direction of Padre Antonio, even in this very Santuario. But in the 1980s Padre Gino had a very busy job 30 miles away in Bradford, Massachusetts as director of a program for intellectually disabled youth. So Padre Antonio needed a new accompanist. My dear grandfather spoke to him about me, and to me about him. I met Padre Antonio after Mass for the feast of Don Orione on Sunday, March 15, 1987. He was 75 years old and spoke almost no English. I was 16 and I didn't speak a single word of Italian. Specifically to be able to work with him at the Madonna in East Boston, I set about learning the Italian language, starting from the very beginning: "Ciao, come stai?"

Every Wednesday evening for almost 18 months, I dined with the Orionine priests. From right to left there were: Padre Rocco Crescenzi, Padre Lorenzo Tosatto, Padre Antonio, Padre Angelo Falardi and Father John Kilmartin. The first dinner was a somewhat astonishing experience for me. Having grown up in Boston with such Americanized parents, I had never had an Italian meal, with first course, second course, salad, cheese, fruit, etc. When I expressed my astonishment to Padre Lorenzo Tosatto, he said, APOLOGETICALLY, "We have our main meal at noon."

Although Padre Rocco founded the retirement home in 1951, the large underground sanctuary was built much later. It was finally dedicated on November 29, 1987. Padre Antonio conducted the Madonna Choir, and I was at the organ.

Padre Antonio's favorite topic of conversation was Perosi. Perosi, Perosi, Perosi. I, a 16-year-old American, had never heard the name of Perosi. I could not understand his enthusiasm for this “unknown” composer. In my 16-year-old mind I reasoned: “If he were a great composer, I would know his name.” But Padre Antonio was persistent. He gave me an audiocassette of the Missa seconda pontificalis, with the Coro Vallicelliano directed by Padre Antonio Sartori and the great maestro Giuseppe Agostini at the organ (who unfortunately is no longer with us). And one evening I listened to this audio cassette. From the first Eleison, I had butterflies in my stomach. I was converted.

Of course this conversion gave a lot of joy to Padre Antonio, who then gave me several other scores and recordings. One of these was a brand new recording, made live in this Santuario on May 10, 1987. A choir of 1700 (!) singers, Padre Luigi Sessa at the podium, Maestro Attilio Baronti at the organ. The producer of the recording was Cavalier Luciano Carniglia, in collaboration with Padre Giuseppe Scappini.

So it was this very recording from 35 years ago that made me begin to understand the significance of this Santuario. As you know very well, the future Saint built this building with the priests and novices and young clerics. One of these young men was Padre Rocco Crescenzi, who was an errand boy for Don Orione. He told me about all this, about Don Orione's penetrating eyes in front of which no one dared to tell a lie. He told me about bringing the bricks to build the Santuario. He would tell me of the joy of dedication and of being awake for 36 or 40 hours straight.

Unfortunately, after only 18 months of collaboration, Padre Antonio was transferred from East Boston to Pompeii, Italy. You can imagine how sad I felt.

Meanwhile my love for Perosi's music was growing, and so was my love for Italian culture. I was burning with the desire to go to Italy, but I had no plans. Padre Antonio put me in touch with a family he knew in Sant'Antonio Abate near Pompeii. I stayed with this family, and a chain of events was set off that changed the course of my life and career. I saw Padre Antonio for the very last time, who sadly died a year later. He was born forty years after Perosi's birth, and he died forty years after Perosi's death.

Meanwhile at home in East Boston my life continued to intersect with the Don Orione Home. My Sicilian grandmother suffered from dementia. In 1999 she was enrolled in the adult daycare. Imagine that both of my grandmothers received care at the Don Orione Home.

Then a year later another "Orionine intersection" occurred in my life. Very close to the Madonna is St. Lazarus Church. My maternal grandparents were married there. Both had their funerals there. I played the organ for both funerals, but also because I was one of the organists of St. Lazarus at that time. Originally that church had been a Scalabrinian congregation. Then it became a diocesan church. And in the year 2000 it became an Orionine church. The new rector was Father John Kilmartin.

In 2006, I wrote a biography on Perosi, the very first in English. It commemorated the 50th anniversary of his death. There were some strange coincidences during this year. One of them was finding a house a five-minute walk from the Madonna! It was a short but nostalgic period in my life. Being in the area, I often played for Masses in the St. Pius X chapel, which was inside the rest home. Padre Rocco and Padre Gino alternated the celebration of Masses. Afterwards, we would have a coffee and a biscuit and reminisce about Don Orione and Padre Antonio.

In the same period, 2007, I had the great honor of playing in the Festival Perosiano here in Tortona. The directors of the festival at that time were Doctor Giorgio Gatti and Cavalier Carniglia. And thanks to the intercession of the great Maestro Arturo Sacchetti, my concert took place in the Cathedral. I regret only the fact that I was unable to meet Padre Scappini, who had died a short time before.

While staying in Tortona, I was obviously looking forward to attending a Mass at the Santuario! At the organ was Padre Serafino Tosatto, cousin of Padre Lorenzo. His sprightly personality and his playing on the organ belied his 78 years.

After all these connections during all these years, you could imagine my emotions arriving in Tortona again this week, playing a couple of Masses for the Assumption last Monday, having meals with Orionine priests for the first time in 34 years, and to share this important moment in my life with you now. I could never express my gratitude to Don Paolo Padrini, to Don Renzo Vanoi, the musicians, the other priests, and all the staff here. Surely this week, and tonight in particular, I will never forget.

 
Cartolina storica del Santuario di Tortona (dalla mia collezione personale)
Historic postcard of the Santuario in Tortona (from my personal collection)